Dubbi ormai non ce ne sono più. Gli interventi dietetici – e più in generale sullo stile di vita – hanno un potenziale enorme.
Oltre a rappresentare una delle colonne portanti della prevenzione delle malattie del terzo millennio, dal diabete ai tumori, possono essere considerati alla stregua dei farmaci nel trattamento di molte condizioni croniche.
Le evidenze, in questo senso, sono da anni in crescita costante. E l’interesse della comunità scientifica si muove secondo lo stesso trend.
Anche i medici – in particolare tutti coloro che afferiscono a specialità internistiche – sono sempre più propensi a trattare la dieta come una terapia per diverse condizioni. Una quasi equazione, a cui manca un ultimo tassello per divenire tale: traslare le prove raccolte negli studi scientifici nella pratica clinica.
La dieta come terapia: passare dalla teoria alla pratica
Un tema, quest’ultimo, a cui è stato dedicato un editoriale pubblicato ad aprile sulla rivista “Nature Medicine”. Al di là del concetto generale, indiscutibile, che una dieta equilibrata nelle proporzioni dei macronutrienti e sufficientemente varia da garantire un corretto apporto di micronutrienti aiuta a stare in salute, c’è molto interesse per interventi nutrizionali mirati a prevenire o a curare (da sola o abbinata a una terapia farmacologica) alcune specifiche malattie.
L’assunzione di sostanze chimiche per lunghi periodi da parte di soggetti sani al fine di prevenire una malattia prende il nome di chemioprevenzione. Sono interventi di chemioprevenzione – in questo caso, più correttamente di farmacoprevenzione – la somministrazione dell’aspirina a basse dosi ai soggetti a rischio di malattie cardiovascolari e la somministrazione del tamoxifene alle donne che hanno un rischio molto alto di sviluppare il tumore al seno.
La dieta come elemento di prevenzione
L’idea di prevenire una malattia mangiando, invece che ingoiando una pillola, è molto attraente e ha stimolato la nascita di diverse linee di ricerca. Per realizzare questo tipo di intervento, sono necessarie due cose.
Bisogna conoscere in che modo una certa sostanza agisce sui processi biologici contrastando l’esordio della malattia e bisogna che la quantità di sostanza attiva ingerita con la dieta sia sufficiente per essere efficace. Questo secondo punto non è trascurabile perché, se è vero che alcuni alimenti contengono sostanze benefiche, è anche vero che, se la porzione usuale di quell’alimento è molto piccola, se ne assumono quantità irrisorie.
Per superare questo problema in qualche caso si utilizzano gli alimenti fortificati, ossia alimenti che di per sé non contengono, o contengono solo in minima quantità, la sostanza utile (in genere un minerale o una vitamina), a cui la sostanza è stata aggiunta dall’industria alimentare.
Per esempio, come ricorda la Fondazione Umberto Veronesi in un manuale dedicato alle questioni scientifiche più importanti riguardanti la scienza della nutrizione, il sale iodato è sale a cui è stato aggiunto lo iodio e che contribuisce a evitare una carenza e a prevenire le malattie della tiroide.
Un altro esempio è quello dei cereali per la colazione, arricchiti con acido folico e altre vitamine. Per quanto riguarda l’alimentazione naturale, senza alimenti arricchiti, l’interesse è rivolto soprattutto ai composti fitochimici, sostanze biologicamente attive presenti negli alimenti di origine vegetale.
La dieta come terapia
Non di sola prevenzione, però, si parla in riferimento alla dieta. Seppur con ritardo, è cresciuto l’interesse anche nei confronti degli interventi dietetici come terapia per alcune malattie: se non esclusiva, complementare a quella farmacologica.
Il cibo come medicina, dunque. Può funzionare nel diabete di tipo 2 e dell’ipertensione: almeno nelle forme più lievi, in grado di regredire anche soltanto con un intervento sullo stile di vita (riduzione dell’apporto energetico e di sale nella dieta e aumento della spesa attraverso l’attività fisica).
Ma l’intervento nutrizionale – tout court: indipendentemente dalla malattia in questione – è sempre più considerato anche in oncologia. Durante la fase acuta delle terapie e dopo, come strumento con cui prevenire le recidive. Per non parlare della grande attenzione che da pochi anni riguarda la composizione del microbiota intestinale: le cui alterazioni sono studiate come possibile causa di diverse malattie, alcune delle quali a prima vista anche molto lontane dal nostro apparato digerente.
Rimane un grande limite, che è quello che su “Nature Medicine” si chiede di superare: il trasferimento di dati provenienti quasi sempre da studi epidemiologici.
Il limite (da superare) degli studi sulla nutrizione
Il nesso tra alimentazione e sviluppo di una malattia si studia infatti soprattutto con gli strumenti dell’epidemiologia, che si occupa di indagare e individuare le relazioni esistenti tra alimentazione e malattie. L’idea di fondo è che un evento influenzi un certo risultato.
L’esposizione può essere associata a un aumento o una diminuzione del rischio di sviluppare una malattia. E può essere collegata all’ambiente e agli stili di vita o a fattori innati o ereditari. Valutare le esposizioni è difficile. Occorre raccogliere dati sulla natura della stessa, sulla dose e sul tempo di contatto con una sostanza.
O, in questi casi, un alimento. Come si legge sempre sul manuale di Fondazione Umberto Veronesi, per vedere un aumento o una diminuzione nei casi di malattia rispetto a quelli attesi (e poter quindi affermare che i pazienti sono stati esposti a qualcosa di potenzialmente pericoloso) servono i grandi numeri.
In futuro si prescriveranno anche le diete
Ma la prova definitiva della relazione tra un fattore di rischio e la malattia si ha quando la ricerca chiarisce il meccanismo biologico sottostante.
È quello che in molti casi ancora manca, quando si parla di dieta come fattore protettivo o meno per la salute. Ed è ciò su cui nell’editoriale di “Nature Medicine” si chiede di puntare, partendo dalla consapevolezza che la solidità dei dati portati all’attenzione dagli studi epidemiologici è già difficile da scalfire.
Ma serve compiere l’ultimo passo, che precederà le prescrizioni dietetiche da parte dei camici bianchi. D’altra parte, se sempre più spesso si parla dell’alimentazione come di un farmaco, tocca innanzitutto ai medici iniziare a trattare i nostri pasti come tali.