L’obesità – quella condizione di eccesso di peso che si concretizza in varie forme quando l’indice di massa corporea è superiore a 30 – non ha una doppia faccia. Non può essere “buona” o “cattiva”.
È, in tutte le sue forme, già di per sé una malattia (questo per evitare che vengano stigmatizzate le persone obese). E come tale costituisce anche un fattore di rischio per tutta una serie di condizioni (diabete, malattie cardiovascolari, sindrome metabolica, almeno 13 forme di cancro) che oggi riconosciamo come la vera emergenza sanitaria del terzo millennio.
A confermarcelo è uno studio pubblicato nelle scorse settimane sullo “European Heart Journal”, che oltre a smentire un’ipotesi iniziata a circolare negli ultimi anni ridimensiona pure (e non è la prima volta) il valore dell’indice di massa corporea (BMI) come fattore di prognosi per la salute.
Cosa si intende per paradosso dell’obesità?
Un passo indietro. Il paradosso dell’obesità nasce da alcuni studi da cui sarebbe emerso che tra due persone vittime di un evento cardiovascolare acuto, chi ha un indice di massa corporea superiore a 25 avrebbe maggiori chance di sopravvivervi o comunque un esito migliore rispetto a chi invece è normopeso.
Un’evidenza che aveva portato qualche scienziato a chiedersi se in alcuni casi l’obesità non fosse alleata della nostra salute. Senza che però nessuno sia nel frattempo riuscito a spiegare quale eventuale meccanismo biologico fosse dietro questo potenziale “vantaggio” per la salute.
Un’evoluzione non confermata da quest’ultimo studio, in cui sono stati coinvolti quasi 8.500 tra uomini e donne affetti da scompenso cardiaco.
Obiettivo: valutare come le loro prognosi fossero condizionate dalla composizione corporea.
Non c’è un’obesità “buona” per la salute
A differenza di quanto fatto in molti altri studi, però, i ricercatori non si sono soffermati soltanto sul confronto dell’indice di massa corporea, che anche in questo caso aveva evidenziato un possibile effetto paradosso. Ma sono andati oltre: confronto i rapporti tra girovita e altezza e tra girovita e fianchi, ritenuti indicatori più affidabili e in grado di tenere maggiormente in considerazione l’effettiva composizione corporea.
Cosa che invece il BMI non fa: dal momento che un valore pari a 30 può essere sia quello di una persona realmente obesa sia quello di un body-builder (il cui peso è in gran parte dovuto alla crescita muscolare). Considerando questi altri indicatori, l’effetto paradosso è svanito.
E la luce sul grasso corporeo è tornata a essere sinistra. Il rischio di nuovi ricoveri e decessi è risultato sensibilmente più alto tra le persone con scompenso cardiaco e una condizione di obesità maggiormente accentuata.
Un messaggio per contrastare anche l’obesità infantile
Conclusioni che evidenziano una volta in più il danno che l’obesità può arrecare alla salute. E che confermano come, a prescindere dalla presenza o meno di alterazioni metaboliche, il personale sanitario abbia il dovere di incentivare la perdita di peso nelle persone in sovrappeso o obese.
Conclusioni valide anche per i piccoli in sovrappeso o obesi, più portati rispetto ai coetanei esili a diventare degli adulti in eccesso di peso e dunque con un maggior rischio cardiovascolare.
L’evidenza scientifica non lascia spazio ai dubbi: non esiste un’obesità che fa bene alla salute.