Come vi avevo preannunciato, a ottobre avremmo dedicato ampio spazio ai bisogni che interessano le donne alle prese con un tumore al seno. Sono 53mila ogni anno, coloro che scoprono di avere questa malattia. E ormai più di una diagnosi su 10 (13 per cento) riguarda persone con meno di 40 anni. Come abbiamo visto in uno degli ultimi post, ritrovarsi a dover fare i conti con un cancro in età adulta ha un impatto psicologico importante: accresciuto dalla presenza di alcuni obbiettivi ancora da raggiungere lungo il proprio percorso. Tra questi, per una donna, potrebbe esserci la maternità. Un sogno che, fino a tre decenni addietro, era destinato a essere cancellato da un tumore. Mentre oggi non è più così.
L’impatto delle cure oncologiche sulla fertilità
Per fare in modo che, una volta superata la malattia, una donna possa decidere di affrontare una gravidanza, il progresso scientifico ha definito un equilibrio tra la necessità di curare la malattia e la possibilità di tutelare la fertilità della donna. Per rispettare la scienza ed essere chiari nei confronti di legge, occorre innanzitutto dire che le cure oncologiche in molti casi compromettono la possibilità futura di avere figli. Il danno può arrivare con gli interventi chirurgici, con i chemioterapici o con la radioterapia. Molti di questi approcci possono infatti indurre effetti collaterali anche a lungo termine, che si riflettono sulla funzione ovarica inducendo infertilità e menopausa precoce. Anche le terapie ormonali somministrate per lunghi periodi di tempo possono incidere negativamente sulla capacità riproduttiva delle ovaie. La strategia, allora, per una donna in età fertile che lo desidera, è quella di correre ai ripari prima dell’inizio delle terapie, se possibile. Tre le opportunità: la crioconservazione degli ovociti o del tessuto ovarico e un trattamento farmacologico. Vediamoli nel dettaglio.
Come si preserva la fertilità di una donna?
Nel primo caso si procede a una stimolazione ormonale per indurre un’ovulazione multipla, poi al prelievo e congelamento degli ovociti. Questi, qualora si volesse tentare di ottenere in futuro una gravidanza, potranno essere scongelati, fecondati e trasferiti in utero con una procedura di procreazione medicalmente assistita (con probabilità di esito positivo analoga a quella che si regista nel resto della popolazione). Nel secondo caso, invece, si opta per una procedura ancora sperimentale, ma che non richiede una stimolazione farmacologica. Il congelamento degli ovociti viene offerto alle donne più giovani ed è la tecnica che offre le maggiori chance di successo. Ma se per iniziare le cure non è possibile attendere e portare a termine un ciclo di stimolazione ovarica, si procede con il prelievo del tessuto ovarico. In questo modo, nell’arco di una settimana, una paziente può essere sottoposta al trattamento di preservazione della fertilità e iniziare le terapie oncologiche. A queste due opportunità, negli anni se n’è aggiunta una terza, che prevede la somministrazione di una terapia ormonale (analoghi dell’LHRH) per proteggere le ovaie durante i trattamenti. Anche in questo caso, non occorre effettuare una stimolazione. Ma l’età rischia di fare comunque la differenza. Come spiegato in questo articolo pubblicato sul Magazine di Fondazione Umberto Veronesi, vista la necessità di aspettare almeno cinque anni dalla fine delle cure, il rischio è quello di avere ovaie non più in grado di produrre ovociti fecondabili. Rischio che non si invece con il prelievo e il congelamento degli ovociti, la cui età biologica rimane quella registrata al momento del prelievo: indipendentemente da quando poi si decida di intraprendere la strada della procreazione medicalmente assistita.
Nessun rischio per gravidanza e allattamento dopo un tumore al seno
«E se la stimolazione ormonale favorisse, nel tempo, una ripresa della malattia?». Illustrando alle proprie pazienti le possibilità che si hanno per preservare la fertilità, gli oncologi sono abituati a ricevere questa domanda. Legittima, se si considera che oltre la metà dei casi di cancro al seno sono «alimentati» dagli estrogeni. Anche in questo campo, però, la ricerca ha fatto passi in avanti. E oggi può fornire ampie rassicurazioni alle donne. Uno studio condotto nel 2017 e pubblicato sul «Journal of the National Cancer Institute» (il link è tra le fonti) ha infatti evidenziato come le donne rimaste incinte dopo un’iniziale diagnosi di tumore al seno, incluse quelle con tumori che presentavano i recettori sensibili gli estrogeni, non presentavano un maggior rischio di recidive o morte. Un passo avanti importante, se si considera che, sebbene metà delle giovani donne con una diagnosi di questo tipo si dichiari propensa ad avere figli, meno di 1 su 10 rimane incinta. I risultati di questo lavoro, firmato anche da diversi medici italiani, confermano che la gravidanza dopo un cancro al seno non deve essere scoraggiata. Naturalmente occorre comunque considerare la storia personale di ogni singola paziente per decidere quanto tempo aspettare prima di provare ad avere figli. Inoltre, nonostante i pochi dati relativi in questo studio all’allattamento al seno, i risultati suggeriscono che allattare è possibile, anche dopo l’intervento chirurgico.
Il difficile diritto ad avere un figlio dopo un tumore
Le possibilità offerte dalla scienza stanno andando a scalfire un sistema che, fino a pochi anni fa, spesso non considerava la preservazione della fertilità in una donna giovane colpita da un tumore al seno come un valore equivalente all’efficacia delle terapie. In Italia, come documenta l‘Associazione Italiana Malati di Cancro (Aimac), sono 18 i centri (pubblici o privati convenzionati) con un’unità dedicata alla preservazione della fertilità nelle pazienti oncologiche. In tutti esiste un servizio dedicato alla preservazione della fertilità delle pazienti oncologiche: con oncologi, medici della riproduzione e psicologi che forniscono informazione, supporti e cure alle donne. Un dato in crescita, che denota però anche come alcune Regioni continuino a essere sprovviste di centri per l’oncofertilità. Per le donne malate che vivono in questi territori, da cui spesso peraltro si registrano tassi elevati di migrazione sanitaria, pensare di avere un figlio una volta superata la malattia diventa inevitabilmente più difficile. A ciò occorre aggiungere un’altra difficoltà, data dal fatto che non tutte le Regioni offrono i trattamenti per la preservazione della fertilità alle pazienti oncologiche. E che in molti centri occorre pagare un contributo annuo per garantirsi il congelamento degli ovociti.
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